Di piuma in piuma fino alla Pasqua, patendo il «supplizio» degli odori di nnoglie, pezzente e insaccati vari. Il tempo di Quaresima lo scandivano così gli avi amalfitani. E fino al giorno della Resurrezione. Una tradizione che ancora oggi sopravvive in alcuni centri della Costa d’Amalfi.

Come Ravello, dove dinanzi ai balconi continua a comparire uno strano fantoccio di pezza. La chiamano «Quaresima buttunata», quella vecchina fatta con stracci e stoffe logore ed al cui interno gli anziani collocavano zucchette o patate. Ed è proprio su queste che s’appuntavano penne d’oca e di gallina.

Ma cosa c’entrano le piume con la Pasqua e con i giorni di digiuno e penitenza? Considerata come forma di grande spiritualità, quest’abitudine serviva a contare le settimane che separavano i giorni di privazioni da quelli delle grandi abbuffate. E così, una per volta, le sei piume che conducevano alla Pasqua, venivano rimosse di domenica in domenica. E sempre prima dell’ennesimo pranzo di magro in attesa della festa.

Tempi di digiuno e di preghiera quelli di una volta. Tempi in cui la genialità gastronomica gravava interamente sulle povere massaie. Ma sempre nel rispetto delle regole e dei dogmi della Chiesa. Ridotte all’osso le attività di cucina nei giganteschi e prodigiosi locali dei conventi, tutti formati da enormi rastrelliere per le teglie e da cappe smisurate collocate a qualche metro dai fornelli, almeno fino alla Pasqua il mestolo d’oro veniva infatti affidato alle casalinghe. E se i riti penitenziali frenavano la laboriosità di monache e frati cistercensi, dalla tradizione popolare ecco spuntare zuppe di verdure e di legumi ma anche prelibati dolcetti come ad esempio i «Quaresimali».

Stando a ciò che ci tramanda attraverso i suoi scritti il compianto storico della gastronomia amalfitana, Ezio Falcone, si tratta di piccoli biscotti fatti di mandorle e nocelle, impastate con solo olio. Questi dolcetti che avevano la forma di numeri o di lettere dell’alfabeto, si preparavano nei giorni prima di Pasqua. E Ancora oggi, intinti nel vino, risultano essere prelibati. Le sei settimane di digiuno, utili ad assolvere i peccati di gola, culminavano poi con la grande liberazione pasquale. A primeggiare sulle tavole imbandite era il «condimentum», ovvero strutto e carne di maiale presenti sia nella «minestra ammaritata» che nel «tortano ca ‘nzogne e pepe».

Una tradizione tipicamente della Costiera Amalfitana che sopravvive tutt’ora al tempo e all’insidia di nuove mode. Il tortano è una produzione tipica della zona ed è totalmente diverso da quello napoletano. Tale alimento, di forma tonda e ricoperto di lardo salato ed erbe aromatiche come il rosmarino, si consumava caldo. Poi l’estro culinario della zona ha creato i tortani, impastati con sugna, cigoli, pepe che, con l’aggiunta di qualche uovo incastrato sulla superficie, arricchiscono ancora oggi gli antipasti pasquali fatti di formaggi e soppressate.

Ma il piatto forte della tradizione costiera è senza dubbio l’agnello brodettato, meglio conosciuto come «’o beneritto». Presente da secoli nel banchetto pasquale di contadini e padroni, l’agnello a zuppa continua ad essere una costante delle tavole imbandite e assume questo nome per la presenza delle foglie di alloro aggiunte a cottura ormai ultimata. Agnelli e capretti, infatti, costituivano il dono che i coloni offrivano ai padroni in occasione della Pasqua. Ed è assai probabile che queste donazioni abbiano influito nell’accreditare la tradizione culinaria, ancora oggi in uso in moltissime famiglie, di consumare a Pasqua l’agnello brodettato e speziato.

La preparazione di questo piatto è estremamente semplice: dopo aver fatto soffriggere la cipolla nella sugna si aggiunge l’agnello tagliato a pezzi, preceduto da un dito d’acqua salata. Portare a ebollizione e aggiungere se occorre altra acqua bollente. A cottura ultimata sollevare la teglia dal fuoco e completare l’opera unendo uova sbattute, caciotta e caciocavallo grattugiati, pepe e foglie d’alloro.

Semplici e deliziosi sono poi i «casatielli» pasquali, morbidi dolcetti fatti di leggero pan di Spagna glassato con zucchero e minuscoli confetti colorati detti «diavolilli», prodotti ancora oggi dalla storica pasticceria Pansa. E’ questo, ormai da qualche secolo, il dolce tipico della Costiera, insieme con le pecorelle di zucchero da divorare durante le scampagnate del lunedì dell’Angelo. Questo, secondo ciò che ci narrava Ezio Falcone, è il giorno del timballo di maccheroni fatto con ragù di cularda di manzo e maiale, polpettine, mozzarella, salame, uova, sugna e bucatini. Il tutto raccolto in una pasta frolla da un centimetro. A goderselo ancora oggi sono in tanti, almeno tra quelli che a pasquetta percorrono a piedi i sentieri della «Terra della Sirene». (© RIPRODUZIONE RISERVATA)