di Giuseppina Severino

Il mare omerico, che da Punta Campanella ad Amalfi, insinuandosi nella valle che solca e squarcia Atrani, si stende sino ed oltre la baia di Punta Licosa, è sempre straordinario ed invita al ringraziamento per essere nati qui, su questo lembo di terra. Qui è l’arcipelago delle Sirenuse, il luogo in cui le Sirene vivevano ed ammaliavano i marinai in transito, facendoli naufragare contro gli scogli.

Il geografo greco Strabone (I sec. a.C.) ci fornisce una testimonianza autorevole per l’ubicazione delle Sirene nel nostro Golfo. Nel libro V (4, 8) della sua Geografia è proprio lui ad identificare la sede delle Sirene nelle tre isolette situate nel tratto di mare antistante Positano. Nel De Mirabilibus auscultationibus dell’anonimo Pseudo-Aristotele (IV-III secolo a.C.), le isolette sono ancora definite Sirenussai. La tradizione vuole che il toponimo Sirene sia associato a quello di Li Galli, che appare nei documenti prima nel 1131 e poi nel 1225, quando Federico II di Svevia le donò al monastero di S. Maria di Positano denominandole tres Sirenas quae dicitur Gallus.

Gli antichi naviganti incontravano Li Galli dopo aver attraversato il golfo dei Ciclopi e superato le Bocche di Capri. Era un tratto di mare difficile per la navigazione. Secondo il mito due navi riuscirono a scampare ad un crudele destino di morte: quella di Ulisse, di ritorno dalla guerra di Troia, e quella degli Argonauti.

Nel libro XII dell’Odissea Omero canta che Ulisse non volle rinunciare a sentire le Sirene e così, su consiglio della maga Circe, si fece legare all’albero della nave, dopo aver turato con della cera le orecchie dei suoi marinai. Nessuno era mai passato di lì con la nera nave senza ascoltare il loro suono di miele, nessuno era tornato vivo di lì, ma Odisseo, grande gloria degli Achei, fermò la nave ed udì la voce delle Sirene.

Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (libro IV, 890-912) gli Argonauti, invece, si salvarono grazie alla bravura di Orfeo, figlio di Eagro, che tese la cetra bistonia e fece risuonare le note allegre di una canzone dal ritmo veloce, affinché il suono sovrapposto della sua musica rimbombasse nelle orecchie delle crudeli creature, simili a fanciulle nel corpo ed in parte ad uccelli. Le Sirene si lanciarono in mare per l’umiliazione subita e furono tramutate in rupi.

In età augustea l’eco della malefica attrazione delle Sirene rivive ancora nei versi dell’Eneide (libro V, 864-865), quando Virgilio ricorda che gli scogli delle Sirene erano un tempo rischiosi e biancheggianti per le molte ossa. La versione dominante del mito racconta che le Sirene erano tre: Partenope, Leucosìa e Lìgeia.

Quale fu il loro destino?

Il poeta ellenistico Licofrone di Calcide (III secolo a.C.) nel suo poema Alessandra, è il primo a raccontare la loro storia.

Leucosia, quella che ha candide membra, si diresse per morire a Punta Licosa che chiude a sud il golfo di Salerno. Il suo corpo emerse nelle acque del golfo di Poseidonia (Paestum), dando il nome Leucosia a Punta Licosa, nel comune di Castellabate.
Il corpo di Ligea, la melodiosa dalla voce incantevole, secondo la tesi più accreditata del mito, fu rigettato dalle onde del mar Tirreno sino sulla riva tirrenica della Calabria, presso Terina, città della Magna Grecia, dove ricevette onorata sepoltura dalle pietose mani dei naviganti.

La terza sirena de Li Galli, ‘quella che sembra una vergine’, era Partenope. Il suo corpo fu spinto sino alle foci del fiume Sebeto, dove poi i Cumani avrebbero fondato Neapolis. Partenope finì con l’incagliarsi sugli scogli dell’isoletta di Megaride, dove attualmente sorge il Castel dell’Ovo in Napoli. Qui fu ritrovata con gli occhi chiusi ed i lunghi capelli fluttuanti da alcuni pescatori. Appena provarono a toccarla, il corpo si dissolse e si fece terra, tracciando il profilo sinuoso del golfo di Napoli. Sull’altura di Capodimonte distese il capo e disegnò sul mare il promontorio di Posillipo, che i greci Napoletani giustamente chiamarono “luogo di pausa dal dolore” (Pausylipton). In quel luogo sorse la città di Parthenope, che poi divenne Neapolis, la città nuova. Lì espresse la sua più libera e sensibile poesia il grande Virgilio, nutrito dallo spirito della dolce sirena Partenope (Georgiche 4, 564).

Tuttavia le nostre Sirene erano destinate a diventare immortali e tornarono più vive che mai nei racconti, nella poesia lirica, nella musica, persino rinnovate nell’aspetto per metà di donna e per metà di pesce apparso nel medioevale Liber Monstrorum (I, VI).
Ritornarono vive come Partenope nel racconto di Matilde Serao (in Leggende napoletane) o per ingannare gli uomini come la donna-pesce della Bambolina di Luigi Capuana, per farli innamorare come la Sirenetta di Hans Christian Andersen o  per sedurli come nel racconto Lighea di Tomasi di Lampedusa, per trasformarli in corallo nella fiaba riscritta da Calvino La sposa sirena o per accompagnarli nel regno dei morti nel Faust di Goethe o per bere qualcosa in un pub come le sirene celtiche nelle Fiabe irlandesi di Yeats.

Si nascosero teneramente sino a commuoverci come la sirena bambina di Gianni Rodari nel suo Libro degli errori. Si formarono nel mondo immaginario labirintico del Manuale di zoologia fantastica di Borges, destinate a dissolversi quando il viaggiatore decide di volgere le spalle ed allontanarsi. Non vollero più cantare per gli umani né tantomeno per i poeti, ma solo fra di loro come nel Canto d’amore di J. Alfred Prufrock (in Prufrock e altre osservazioni).

Ebbero “un’arma ancora più terribile del canto, cioè il loro silenzio”, dal quale si originarono le multiformi riscritture di Franz Kafka (Il silenzio delle Sirene, in Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi 1917-1924), Edward Morgan Forster (The Story of the Siren) e Maria Corti (Il silenzio della sirena, nella raccolta Il canto delle sirene).
Fu proprio il silenzio del nostro tratto di mare, che era stato culla per le sirene, ad ispirare Edoardo Scarfoglio, sino a spingerlo ad esclamare in apertura della novella L’arcipelago delle Sirene: “Se la fortuna avesse fatto di me uno di quei grandi carnivori americani, che rivomitano i milioni rapinati in biblioteche inutili e in università oziose […], io avrei comperato tutto questo paese amalfitano da Nerano a Vietri, per tramandarlo intatto ai più lontani nipoti, per impedire agli uomini irrequieti […] di deformarlo col pretesto di rinnovarlo. Ogni innovazione qui è un misfatto […].A tutti gli abitanti avrei donato quanto loro manca per la sicurezza e la tranquillità della vita, questo solo obbligo loro imponendo: di continuare a produrre i loro giorni come fanno da sei secoli nella contemplazione della bellezza che li circonda, che li avvolge, che li possiede, e di cui sono, senza saperlo, un elemento essenziale.”

Scarfoglio, che soggiornava spesso nella villa Carusiello tra Atrani e Minori, si era augurato per la Costiera un futuro fuori dalla “mischia micidiale per l’esistenza“, lontano da “vaste prigioni affocate e piene di fumo, con un martellio assordante e con un ansimare di macchine, con le scorie dei forni e la marina coi residui dei prodotti chimici“, nel quale mai “questo raro vestigio del passato” venisse inquadrato “nella insopportabile banalità del mondo”.

Potere delle Sirene!

Un potere che si ripropone ancora nel Pianto di sirena di Jun’ichiro Tanizaki, quando il silenzio d’improvviso scompare e “la sirena … articolò chiare umane parole. Se in futuro avrai l’occasione di andare in Occidente, visiterai l’Italia, nell’Europa meridionale, che è come un paesaggio dipinto in un quadro, particolarmente bella tra i paesi belli. E se con la nave, dopo aver attraversato lo stretto di Messina, passerai al largo del porto di Napoli, è proprio lì che noi sirene dimoriamo da molto tempo (…). La mia vita e la mia bellezza se ne vanno. Se davvero vuoi vedere l’incanto della sirena, rimandami al mio amato paese natio.”, perché di un mito c’è sempre un’altra versione da leggere, il mito non si è mai concluso   – c’è sempre un’altra versione da scrivere. (Maurizio Bettini, Mythologica).