Nicoletta Mantovani è stata la moglie di Luciano Pavarotti. La donna ha raccontato di aver affrontato e superato la sclerosi multipla.
La moglie di Luciano Pavarotti ha raccontato come ha affrontato la malattia e di come l’avrebbe superata.
“Nel breve periodo in cui a Bologna fui assessore alla cultura mi segnalarono un convegno sulla Sm, che si teneva in città. Lì sentii parlare il professor Zamboni della sua scoperta, mi incuriosii, andai a trovarlo. Zamboni mi disse che i miei sintomi potevano dipendere da una occlusione venosa a livello del collo“.
E’ stato grazie a questo medico che avrebbe superato la malattia. Come ha svelato la stessa Nicoletta Mantovani in un’intervista al Corriere.
“Per tutti questi anni, la stanchezza e la mancanza di equilibrio, che ogni mese per qualche giorno si trasformava in vertigini costringendomi a letto, non mi hanno abbandonato mai, forse anche perché non ho preso farmaci. Però, dopo l’operazione questi sintomi sono spariti e ora sto bene come non sono mai stata in vita mia. Durerà? Non so, incrocio le dita”.
Sono state palesate diverse perplessità rispetto alla guarigione dalla sclerosi multipla. E’ stata lei a raccontare il momento nel quale le hanno diagnosticato la malattia.
“Seguii Luciano che andava in tournée negli Stati Unitie lì, brutalmente, mi fu detto che avevo la sclerosi multipla e che sarei finita su una sedia a rotelle. Luciano si infuriò per quei modi bruschi, prese per il bavero il medico, urlandogli: ‘Ma si parla così a una ragazza di 25 anni?’. Intervennero le guardie del corpo, un parapiglia, ma la diagnosi fu confermata dalle risonanze cui mi sottoponevo per verificare l’andamento della malattia e i danni che faceva al sistema nervoso“.
Nella stessa intervista, Nicoletta Mantovani parla direttamente della dinamica dell’intervento.
“Non si è trattato di quello ‘classico’, ma di una variante, perché con l’ecocolordoppler Zamboni si accorse che mentre parlavo le vene del collo si ‘aprivano’. Significava che un muscolo masticatore schiacciava la mia giugulare. Questa particolarità avrebbe reso inutile il tentativo di dilatarla con un pallone. Si rese necessario il prelievo di un ‘pezzetto’ di vaso sanguigno da una gamba per allargare stabilmente la vena del collo. L’operazione è stata diversa dall’angioplastica, ma sempre basata sull’intuizione di Zamboni. Ecco perché sostengo il suo metodo“.
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