«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».

La decisione di istituire il Giorno del Ricordo il 10 febbraio venne presa il 30 marzo 2004 dal Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi per tenere viva la memoria delle vittime nel secondo dopoguerra sul confine orientale, e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati dalle loro terre in seguito all’avanzata dell’esercito di Tito.

Un po’ di storia

Al termine della seconda guerra mondiale, le città italiane di Fiume e Zara e la penisola d’Istria vengono cedute alla Jugoslavia.

Il passaggio delle città da italiane e jugoslave comportò una serie molto lunga di violenze da parte dei partigiani comunisti guidati da Josip Broz, conosciuto come Tito, nei confronti di tutti coloro che considerano nemici della costituzione di una federazione comunista jugoslava sotto la leadership di gruppi dirigenti di origine serba.

Due furono le ondate di epurazione su base etnica e nazionalisticada parte di Tito.

La prima ondata si ebbe nell’autunno del 1943 e interessò principalmente l’Istria, dove accanto a squadristi e gerarchi fascisti vengono prelevati i possidenti e chiunque potesse far ricordare l’amministrazione italiana, che nei decenni precedenti aveva creato non pochi problemi.

La seconda ondata di violenze, invece, ebbe inizio nel maggio 1945 con l’arrivo delle truppe jugoslave in Venezia Giulia. Le rappresaglie colpirono soprattutto i soldati della neonata Repubblica Sociale ma anche tutti coloro che furono accusati di collaborazionismo con i regimi nazifascisti, e alcuni partigiani italiani, rei di non accettare l’egemonia jugoslava.

Nel periodo tra il 1943 e il 1947 gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case sono stati almeno 250mila con circa 20mila vittime. Diverse migliaia tra queste, tra le 4mila e le 6mila, hanno perso la vita all’interno delle foibe: profonde cavità naturali tipiche delle aree carsiche, dove venivano abbandonati i corpi dei giustiziati.

Secondo le ricostruzioni, i condannati venivano legati l’uno all’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi e disposti lungo gli argini delle foibe. A quel punto i membri delle milizie titine erano soliti sparare solo ad alcuni di loro, che una volta colpiti cadevano nelle grotte portandosi dietro l’intera fila.

In molti sono morti tra crudeli sofferenze, dopo giorni ammassati sui cadaveri degli altri condannati.