Giuseppe è l’uomo che ha aggredito brutalmente Barbara Bartolotti. La donna ha lottato a lungo tra la vita e la morte.
Giuseppe, il collega di lavoro di Barbara Bartolotti, era conosciuto come il classico “bravo ragazzo” – riservato, gentile e rassicurante. Tuttavia, dietro questa immagine, Giuseppe nascondeva un’ossessione segreta per Barbara. Nonostante non ci fosse mai stata alcuna relazione tra di loro, l’uomo non riusciva ad accettare che Barbara non potesse essere “sua”.
Un giorno, sotto il pretesto di dover discutere di questioni lavorative, Giuseppe invitò Barbara a incontrarlo. Barbara, convinta dell’onestà del collega, accettò l’invito senza sospettare che l’incontro avrebbe preso una svolta tragica.
In un luogo isolato, l’uomo che Barbara aveva conosciuto come un “bravo ragazzo” mostrò il suo vero volto. Quando Barbara cercò di chiamare suo marito per avvertirlo della situazione strana, Giuseppe la colpì alla testa con un martello per quattro volte. L’uomo poi accoltellò Barbara all’addome, causando la morte del bambino che portava in grembo. Infine, estrasse una tanica di carburante dal portabagli della sua auto, la versò sul corpo di Barbara e le diede fuoco.
Nonostante le terribili ferite subite, Barbara trovò la forza di chiedere aiuto. Fu trasportata in ospedale, dove rimase in coma per sei mesi. Durante questo periodo, pronunciò con forza il nome del suo aguzzino ai medici, denunciando così il suo aggressore. Giuseppe, che fino a quel momento era incensurato, fu processato e dichiarato colpevole di lesioni gravissime.
Nonostante il giudizio, la pena di Giuseppe fu incredibilmente lieve. Anche se avrebbe dovuto scontare 25 anni di carcere, alla fine fu condannato solo a 4 anni di arresti domiciliari, pena che non scontò mai grazie all’indulto.
Oggi, Giuseppe è riuscito a tornare alla sua vita normale. Ha ripreso a lavorare, questa volta in una banca, si è sposato e ha avuto dei figli. La sua maschera di “bravo ragazzo” gli ha permesso di sfuggire alle conseguenze delle sue azioni.
D’altra parte, Barbara, la sua vittima, continua a portare le cicatrici fisiche e psicologiche dell’aggressione. Nonostante ciò, ha trovato il coraggio di raccontare la sua storia e di fondare l’associazione “Libera di vivere”, per supportare altre donne vittime di violenza.
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