Fabio Savi è stato uno dei componenti della banda della Uno Bianca che in sette anni commisero ventiquattro omicidi e più di cento feriti.

Andiamo a scoprire la storia vera che ha ispirato anche il documentario.

Uno Bianca: trama documentario

Ventiquattro omicidi e più di cento feriti, sette anni di indagini della polizia per arrivare a scoprire che i colpevoli portavano la divisa e che del proprio ruolo si servirono per riuscire a non essere scoperti.

Alla fine tutti i componenti della banda sono stati processati e ritenuti colpevoli, grazie alle indagini compiute da due poliziotti della Questura di Rimini, Luciano Baglioni e Pietro Costanza, insieme al giudice Daniele Paci nel 1996.

La docuserie ripercorre le tappe del percorso criminale della banda identificata dalla macchina che rubavano, una Uno bianca; scelta perché era la più comune e quindi si confondeva tra le altre.

La banda composta da 6 persone di cui 5 appartenenti alla Polizia di Stato, ha potuto agire per molti anni indisturbata rapinando caselli, supermercati; banche, uffici postali e benzinai.

A parlare sono i protagonisti delle indagini, i due poliziotti Baglioni e Costanza; che si sono messi sulle tracce dei fratelli Savi, il giudice Daniele Paci che volle costituire il ristretto pool investigativo interforze sul caso ed Eva Mikula, la giovanissima compagna di uno dei capi della Uno Bianca, Fabio Savi. La donna racconterà la sua verità sulla banda anche attraverso preziosi documenti originali inediti.

Fabio Savi: storia vera

Fabio Savi è nato a Forlì, il 22 aprile 1960. Fratello di Roberto e co-fondatore della banda, nel 1987. Anche lui, come il fratello, fece domanda per entrare in polizia, ma un difetto alla vista gli pregiudicò questa carriera.

Dai quattordici anni in poi, svolse molti lavori saltuari, e possedeva un carattere spavaldo e aggressivo. Insieme a Roberto, era l’unico membro presente a tutte le azioni criminali della banda.

Fabio Savi venne arrestato qualche giorno dopo il fratello, a ventisette chilometri dal confine con l’Austria, mentre tentava di espatriare, venendo bloccato da un’auto della Polizia stradale.

Lavorava come carrozziere e camionista, e conviveva a Torriana, con una ragazza rumena, Eva Mikula, le cui testimonianze si riveleranno decisive nella risoluzione delle indagini. Dopo la condanna all’ergastolo, venne trasferito nel carcere di Sollicciano a Firenze, e in seguito in quello di Fossombrone a Pesaro.

Foto: Il resto del Carlino